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domenica 23 novembre 2008

Scrivere per sopravvivere

Dalla lettura di "Se questo è un uomo", stralci di parole buttate su carta decenni or sono:

La shoah tra ricordi e silenzi
Scrivere per sopravvivere.

“Meditate che questo è stato: vi comando queste parole. Scolpitele nel vostro cuore, stando in casa, andando per via, coricandovi, alzandovi, ripetetele ai vostri figli..”.

Così Primo Levi, chimico torinese di origine ebraica catturato dalla milizia fascista, inizia il suo memoriale; un’analisi fondamentale della storia del lager e al tempo stesso dell’umiliazione, della degradazione dell’uomo prima ancora della sua definitiva soppressione nello sterminio di massa.
20 Gennaio 1942: Adolf Hitler vara la “soluzione finale”, la tristemente nota shoah, ordinando così lo sterminio sistematico di milioni di ebrei.
Un crimine contro l’umanità, uno sterminio pianificato e legalizzato, degrado fisico e morale, totale spersonalizzazione dell’uomo, lotta per la sopravvivenza, questa è stata la shoah. La risultante di un percorso millenario, di un estenuante antisemitismo ereditato nei secoli e radicato nella coscienza collettiva. Anni di violenze costanti, il dolore dell’esilio, la ghettizzazione, gli stermini di massa, hanno raggiunto con essa l’effetto finale: la conversione dell’antigiudaismo ereditato dal passato in ideologia politica.
Un’esperienza dolorosa quella del lager, che ha segnato definitivamente la vita dei superstiti, di coloro che hanno visto e provato sulla propria pelle la vergogna, l’onta dell’offesa e nonostante ciò il bisogno di sentirsi uomini al di là di ogni abbrutimento. Impossibilità a dimenticare, bisogno di ricordare, di raccontare quello che è stato, sono queste le trame entro le quali si tessono le maglie della scrittura.
Dalla lettura di "Se questo è un uomo" (1947) di P. Levi, due i punti di domanda: che cosa ha rappresentato per Levi lo scrivere? Levi ha mai perso se stesso?
Credo che il modo migliore per capire, sia proprio quello di partire dalla sua esperienza letteraria, che nasce proprio dal bisogno di raccontare al mondo intero ciò che è stato, “le mie cose” come lui stesso dirà. Se questo è un uomo, ce lo chiediamo noi in prima persona leggendo una delle sue opere. No, non è più un uomo chi è costretto ad obbedire ciecamente, a marciare senza sbagliare un passo per non essere colpito, a non avere speranza nel domani, a lasciarsi vivere. Non è più un uomo chi è continuamente braccato dalla morte, che può arrivare dalla fatica, dalla dissenteria, dalla selezione, mentre il suo essere si abbruttisce, perdendo in quella disperata lotta per la sopravvivenza “l’umanità dei sentimenti”. Ma come si può resistere in una condizione come quella?
Levi ci risponde raccontandoci di Krauss e del falso sogno che lo fece contento, quello stesso sogno a cui lui stesso volle credere e che per un breve momento li rese meno infelici. Ed è nell’immaginario dunque, nel SOGNO, che il prigioniero attinge la forza per andare avanti, acquista la dignità di non lasciarsi travolgere. Quella stessa dignità portò Levi alla salvezza, se potremmo così effettivamente chiamarla: come poter in effetti dimenticare?
Forse lo scrivere poteva essere per lui, come lo è stato per molti superstiti, fonte di liberazione, di riscatto, un modo per superare quei brutti momenti, per andare oltre insomma; nell’appendice al libro leggiamo: “ho scritto il libro appena sono tornato, nel giro di pochi mesi: tanto quei ricordi mi bruciavano dentro..”, un’ affermazione forte questa, che induce a riflettere. Tra le pagine di Se questo è un uomo emerge una realtà dura, difficile da dimenticare, ma ciò che più di ogni altra cosa colpisce me lettrice, è il modo in cui l’autore espone la vicenda. Più di una volta mi sono ritrovata spiazzata dalla lucidità con la quale affronta la narrazione; la descrizione del lager, dei prigionieri, degli espedienti utilizzati da questi ultimi per continuare a sopravvivere (vedi in “al di qua del bene e del male”), la classificazione che fa tra sommersi e salvati, tutto viene scandagliato con la massima razionalità: è disarmante come attraverso la scrittura riesca a rivivere tutto per la seconda volta.. “Si immagini ora un uomo a cui, insieme le persone amate, vengano tolti la sua casa, le sue abitudini, i suoi abiti, tutto infine, letteralmente tutto quanto possiede: sarà un uomo vuoto, ridotto a sofferenza e bisogno, dimentico di dignità e discernimento, poiché accade facilmente, a chi ha perso tutto, di perdere se stesso..”; e Levi, adesso mi chiedo, Levi ha mai perso se stesso durante e dopo quell’inferno?
Per poter rispondere a questa domanda con maggiore certezza, credo che occorra un termine di paragone, qualcuno che in quell’inferno abbia davvero perso se stesso: Ka-tzetnik 135633, questo è il suo nome, o almeno così si faceva chiamare da quando lui da quell’inferno era tornato, e questa la sua testimonianza resa durante il processo Eichmann (udienza n. 68, Gerusalemme 7 Giugno 1961) che mi sento qui di proporre alla vostra attenzione.

Dal processo Eichmann:
“Procuratore generale: Per quale motivo, signor De-Nur, nelle sue opere ha nascosto la sua identità dietro lo pseudonimo “Ka-tzetnik”
De -Nur: Non è uno pseudonimo, non mi considero uno scrittore o un autore di materiale letterario. È una cronaca del pianeta Auschwitz. Vi sono rimasto per quasi due anni. Lì il tempo non ha la stessa unità di misura che ha sulla terra [..]. Gli abitanti di quel pianeta non avevano un nome, non avevano genitori e nemmeno figli. Non si vestivano nello stesso modo come si fa qui sulla terra. Non erano nati lì e non procreavano. Respiravano in accordo con delle leggi naturali diverse. Non vivevano - e neppure morivano - in base alle leggi di questo mondo. Il loro nome era: Ka-tzetnik n°..” (Udienza n. 68, 1961).
Quando i giudici gli chiesero se lui, Yehiel De-Nur, fosse Ka-tzetnik, cadde a terra privo di sensi.


Quando lessi la sua testimonianza non lo nego rimasi colpita, pensai subito che se avessi letto una delle sue opere, confrontando la sua esperienza con quella di Primo Levi sarei riuscita a trovare una risposta alla mia domanda. Shiviti è la testimonianza di un uomo che ha bussato alle porte dell'inferno per scoprire il significato di ciò che aveva vissuto molti anni prima, nel campo di sterminio di Auschwitz. Scritto dieci anni dopo l’esperienza terapeutica a base di LSD in Olanda insieme al prof. Bastiaans, lo psichiatra che per primo aveva studiato la “sindrome da campo di concentramento”, Shiviti è il racconto di una presa di coscienza; una volta tornato in Israele ne inizierà la stesura: “sulle loro ceneri avevo promesso che sarei stato la loro voce e, quando avevo lasciato Auschwitz, erano venuti via con me..”. Passeranno ben dieci anni tra sedute psicoterapeutiche e scrittura; al dottor Bastiaans dirà: “non sono venuto qui da paziente, ma perché ho saputo che lei possiede la chiave di un cancello che da tempo sto cercando di varcare. Per cui la prego di aprirmi quel cancello, ma una volta entrato, di volermi per cortesia lasciare lì, da solo”.

Quello stesso cancello è stato più volte varcato da Primo Levi, con la lucidità di chi non ha paura a varcare le porte dell’anima; sono fermamente convinta, adesso più che mai dopo le letture fatte in quest’ultimi giorni, del fatto che Levi, non avesse perso se stesso, nonostante tutto; il lavoro come chimico al laboratorio, il contatto con Lorenzo, un civile che lo aiutò durante gli anni di prigionia, il rapporto umano con Alberto, gli permisero di non dimenticare la sua umanità. È il dopo quello che mi lascia perplessa. Cosa è successo dopo? Dal 1947 al 1987 l’autore scrive senza sosta, lui stesso dirà: “scrivo quello che non saprei dire a nessuno..”. Questo bisogno di voler raccontare agli altri, di voler capire quello che è stato, è così forte da spingerlo a varcare più volte le soglie di quel cancello, la cui scritta arbeit macht frei lo tormentò più volte nei suoi sogni, come l’autore stesso dirà.
Chissà, forse anche lui, alla fine è rimasto intrappolato dai suoi stessi ricordi, vittima consapevole di quella sua necessità a voler razionalizzare quanto la memoria riportava alla luce.. ma credo che questo non potremmo mai saperlo.
Ebbene, proprio lui che aveva lottato con tutte le sue forze per vivere, per non essere un “sommerso”, alla fine non ce l’ha fatta.
La shoah, un dolore troppo grande per essere attutito dai ricordi. Rimbombano forti le parole di Levi a riguardo: “..poiché [..] nessuno mai ha potuto cogliere meglio di noi la natura insanabile dell’offesa, è stolto pensare che la giustizia umana la estingua. Essa [..] spezza il corpo e l’anima [..] si perpetua come odio nei superstiti, e pullula in mille modi, [..] come cedimento morale, come negazione, come stanchezza, come rinuncia..”[1].
Alla fine ha proprio rinunciato... era l’11 Aprile 1987.
Di lui ci rimane la sua testimonianza, il suo voler indurre tutti a conoscere, a giudicare, a non dimenticare, affinché quella triste vicenda sia un riscatto pagato per le future generazioni, che non debbano mai fare o subire altrettanto. Riguardo le cause della sua morte, molto si è detto, molti pensano al suicidio, in pochi a un malore, una cosa però è certa, Levi non ha o non ha potuto dimenticare.
Da La Tregua:

“.. ora abbiamo ritrovato la casa, il nostro ventre è sazio, abbiamo finito di raccontare. È tempo. Presto udremo ancora il comando straniero: “wstawac” (11 Gennaio 1946).

Gisella Meli



Riferimenti bibliografici
Primo L., Se questo è un uomo, Einaudi Editore, 2005.
Per la testimonianza di Yahiel De-Nur si rimanda al sito:
http://www.albertomelis.it/ebraica.scrittori.israeliani.ka.htm
[1] Da La Tregua di Primo Levi, Einaudi Editore.

martedì 18 novembre 2008

Sentenze




Per un attimo ho chiuso gli occhi, ti ho visto.

Tu solo sai l'invidia che ti porto ..

G. Meli



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