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lunedì 8 dicembre 2008

VISIONI


Una domenica mattina, una macchina fotografica, un paio di scarpe ormai andate e su, si va.. Cominci a vederla passo dopo passo, tra gli alberi, tra le fronde verdeggianti e ti rendi conto di quanto sia diversa.


Ti vedo ma non ti sento, ti cerco ma non distinguo. Ci sei, ma sei così lontana, lontana..


Eppure anche da qui ci sono, lontana da te e quanto più vicino a me; qui, da sola, a rendere un'immagine di te, ancora una volta, attraverso me.



Gisella Meli

domenica 23 novembre 2008

Scrivere per sopravvivere

Dalla lettura di "Se questo è un uomo", stralci di parole buttate su carta decenni or sono:

La shoah tra ricordi e silenzi
Scrivere per sopravvivere.

“Meditate che questo è stato: vi comando queste parole. Scolpitele nel vostro cuore, stando in casa, andando per via, coricandovi, alzandovi, ripetetele ai vostri figli..”.

Così Primo Levi, chimico torinese di origine ebraica catturato dalla milizia fascista, inizia il suo memoriale; un’analisi fondamentale della storia del lager e al tempo stesso dell’umiliazione, della degradazione dell’uomo prima ancora della sua definitiva soppressione nello sterminio di massa.
20 Gennaio 1942: Adolf Hitler vara la “soluzione finale”, la tristemente nota shoah, ordinando così lo sterminio sistematico di milioni di ebrei.
Un crimine contro l’umanità, uno sterminio pianificato e legalizzato, degrado fisico e morale, totale spersonalizzazione dell’uomo, lotta per la sopravvivenza, questa è stata la shoah. La risultante di un percorso millenario, di un estenuante antisemitismo ereditato nei secoli e radicato nella coscienza collettiva. Anni di violenze costanti, il dolore dell’esilio, la ghettizzazione, gli stermini di massa, hanno raggiunto con essa l’effetto finale: la conversione dell’antigiudaismo ereditato dal passato in ideologia politica.
Un’esperienza dolorosa quella del lager, che ha segnato definitivamente la vita dei superstiti, di coloro che hanno visto e provato sulla propria pelle la vergogna, l’onta dell’offesa e nonostante ciò il bisogno di sentirsi uomini al di là di ogni abbrutimento. Impossibilità a dimenticare, bisogno di ricordare, di raccontare quello che è stato, sono queste le trame entro le quali si tessono le maglie della scrittura.
Dalla lettura di "Se questo è un uomo" (1947) di P. Levi, due i punti di domanda: che cosa ha rappresentato per Levi lo scrivere? Levi ha mai perso se stesso?
Credo che il modo migliore per capire, sia proprio quello di partire dalla sua esperienza letteraria, che nasce proprio dal bisogno di raccontare al mondo intero ciò che è stato, “le mie cose” come lui stesso dirà. Se questo è un uomo, ce lo chiediamo noi in prima persona leggendo una delle sue opere. No, non è più un uomo chi è costretto ad obbedire ciecamente, a marciare senza sbagliare un passo per non essere colpito, a non avere speranza nel domani, a lasciarsi vivere. Non è più un uomo chi è continuamente braccato dalla morte, che può arrivare dalla fatica, dalla dissenteria, dalla selezione, mentre il suo essere si abbruttisce, perdendo in quella disperata lotta per la sopravvivenza “l’umanità dei sentimenti”. Ma come si può resistere in una condizione come quella?
Levi ci risponde raccontandoci di Krauss e del falso sogno che lo fece contento, quello stesso sogno a cui lui stesso volle credere e che per un breve momento li rese meno infelici. Ed è nell’immaginario dunque, nel SOGNO, che il prigioniero attinge la forza per andare avanti, acquista la dignità di non lasciarsi travolgere. Quella stessa dignità portò Levi alla salvezza, se potremmo così effettivamente chiamarla: come poter in effetti dimenticare?
Forse lo scrivere poteva essere per lui, come lo è stato per molti superstiti, fonte di liberazione, di riscatto, un modo per superare quei brutti momenti, per andare oltre insomma; nell’appendice al libro leggiamo: “ho scritto il libro appena sono tornato, nel giro di pochi mesi: tanto quei ricordi mi bruciavano dentro..”, un’ affermazione forte questa, che induce a riflettere. Tra le pagine di Se questo è un uomo emerge una realtà dura, difficile da dimenticare, ma ciò che più di ogni altra cosa colpisce me lettrice, è il modo in cui l’autore espone la vicenda. Più di una volta mi sono ritrovata spiazzata dalla lucidità con la quale affronta la narrazione; la descrizione del lager, dei prigionieri, degli espedienti utilizzati da questi ultimi per continuare a sopravvivere (vedi in “al di qua del bene e del male”), la classificazione che fa tra sommersi e salvati, tutto viene scandagliato con la massima razionalità: è disarmante come attraverso la scrittura riesca a rivivere tutto per la seconda volta.. “Si immagini ora un uomo a cui, insieme le persone amate, vengano tolti la sua casa, le sue abitudini, i suoi abiti, tutto infine, letteralmente tutto quanto possiede: sarà un uomo vuoto, ridotto a sofferenza e bisogno, dimentico di dignità e discernimento, poiché accade facilmente, a chi ha perso tutto, di perdere se stesso..”; e Levi, adesso mi chiedo, Levi ha mai perso se stesso durante e dopo quell’inferno?
Per poter rispondere a questa domanda con maggiore certezza, credo che occorra un termine di paragone, qualcuno che in quell’inferno abbia davvero perso se stesso: Ka-tzetnik 135633, questo è il suo nome, o almeno così si faceva chiamare da quando lui da quell’inferno era tornato, e questa la sua testimonianza resa durante il processo Eichmann (udienza n. 68, Gerusalemme 7 Giugno 1961) che mi sento qui di proporre alla vostra attenzione.

Dal processo Eichmann:
“Procuratore generale: Per quale motivo, signor De-Nur, nelle sue opere ha nascosto la sua identità dietro lo pseudonimo “Ka-tzetnik”
De -Nur: Non è uno pseudonimo, non mi considero uno scrittore o un autore di materiale letterario. È una cronaca del pianeta Auschwitz. Vi sono rimasto per quasi due anni. Lì il tempo non ha la stessa unità di misura che ha sulla terra [..]. Gli abitanti di quel pianeta non avevano un nome, non avevano genitori e nemmeno figli. Non si vestivano nello stesso modo come si fa qui sulla terra. Non erano nati lì e non procreavano. Respiravano in accordo con delle leggi naturali diverse. Non vivevano - e neppure morivano - in base alle leggi di questo mondo. Il loro nome era: Ka-tzetnik n°..” (Udienza n. 68, 1961).
Quando i giudici gli chiesero se lui, Yehiel De-Nur, fosse Ka-tzetnik, cadde a terra privo di sensi.


Quando lessi la sua testimonianza non lo nego rimasi colpita, pensai subito che se avessi letto una delle sue opere, confrontando la sua esperienza con quella di Primo Levi sarei riuscita a trovare una risposta alla mia domanda. Shiviti è la testimonianza di un uomo che ha bussato alle porte dell'inferno per scoprire il significato di ciò che aveva vissuto molti anni prima, nel campo di sterminio di Auschwitz. Scritto dieci anni dopo l’esperienza terapeutica a base di LSD in Olanda insieme al prof. Bastiaans, lo psichiatra che per primo aveva studiato la “sindrome da campo di concentramento”, Shiviti è il racconto di una presa di coscienza; una volta tornato in Israele ne inizierà la stesura: “sulle loro ceneri avevo promesso che sarei stato la loro voce e, quando avevo lasciato Auschwitz, erano venuti via con me..”. Passeranno ben dieci anni tra sedute psicoterapeutiche e scrittura; al dottor Bastiaans dirà: “non sono venuto qui da paziente, ma perché ho saputo che lei possiede la chiave di un cancello che da tempo sto cercando di varcare. Per cui la prego di aprirmi quel cancello, ma una volta entrato, di volermi per cortesia lasciare lì, da solo”.

Quello stesso cancello è stato più volte varcato da Primo Levi, con la lucidità di chi non ha paura a varcare le porte dell’anima; sono fermamente convinta, adesso più che mai dopo le letture fatte in quest’ultimi giorni, del fatto che Levi, non avesse perso se stesso, nonostante tutto; il lavoro come chimico al laboratorio, il contatto con Lorenzo, un civile che lo aiutò durante gli anni di prigionia, il rapporto umano con Alberto, gli permisero di non dimenticare la sua umanità. È il dopo quello che mi lascia perplessa. Cosa è successo dopo? Dal 1947 al 1987 l’autore scrive senza sosta, lui stesso dirà: “scrivo quello che non saprei dire a nessuno..”. Questo bisogno di voler raccontare agli altri, di voler capire quello che è stato, è così forte da spingerlo a varcare più volte le soglie di quel cancello, la cui scritta arbeit macht frei lo tormentò più volte nei suoi sogni, come l’autore stesso dirà.
Chissà, forse anche lui, alla fine è rimasto intrappolato dai suoi stessi ricordi, vittima consapevole di quella sua necessità a voler razionalizzare quanto la memoria riportava alla luce.. ma credo che questo non potremmo mai saperlo.
Ebbene, proprio lui che aveva lottato con tutte le sue forze per vivere, per non essere un “sommerso”, alla fine non ce l’ha fatta.
La shoah, un dolore troppo grande per essere attutito dai ricordi. Rimbombano forti le parole di Levi a riguardo: “..poiché [..] nessuno mai ha potuto cogliere meglio di noi la natura insanabile dell’offesa, è stolto pensare che la giustizia umana la estingua. Essa [..] spezza il corpo e l’anima [..] si perpetua come odio nei superstiti, e pullula in mille modi, [..] come cedimento morale, come negazione, come stanchezza, come rinuncia..”[1].
Alla fine ha proprio rinunciato... era l’11 Aprile 1987.
Di lui ci rimane la sua testimonianza, il suo voler indurre tutti a conoscere, a giudicare, a non dimenticare, affinché quella triste vicenda sia un riscatto pagato per le future generazioni, che non debbano mai fare o subire altrettanto. Riguardo le cause della sua morte, molto si è detto, molti pensano al suicidio, in pochi a un malore, una cosa però è certa, Levi non ha o non ha potuto dimenticare.
Da La Tregua:

“.. ora abbiamo ritrovato la casa, il nostro ventre è sazio, abbiamo finito di raccontare. È tempo. Presto udremo ancora il comando straniero: “wstawac” (11 Gennaio 1946).

Gisella Meli



Riferimenti bibliografici
Primo L., Se questo è un uomo, Einaudi Editore, 2005.
Per la testimonianza di Yahiel De-Nur si rimanda al sito:
http://www.albertomelis.it/ebraica.scrittori.israeliani.ka.htm
[1] Da La Tregua di Primo Levi, Einaudi Editore.

martedì 18 novembre 2008

Sentenze




Per un attimo ho chiuso gli occhi, ti ho visto.

Tu solo sai l'invidia che ti porto ..

G. Meli



mercoledì 29 ottobre 2008

ReSiDuO


27 ottobre 2008

Aspetto in silenzio
l'eco dell'evento.
Sussurro sottovoce
ciò che forse non sarai più,

LIBERA.

G. Meli

giovedì 23 ottobre 2008

Ricordi di vita passata

Apro un cassetto, ricordi di vita passata. In alto un titolo, STORIA D'OMBRA, a seguire la mia storia:

“Lì nel regno dove tutto è uguale, dove l’acqua sa di niente, dove il sole mostra la vera natura delle cose, tutto passa inosservato, tutto si unisce e si confonde nell’inesorabile buio dell’esistenza. Più vicino di quanto pensiate, al di là della più cupa indifferenza, eccolo lì innanzi ai vostri occhi il Regno delle Ombre [..] ”.
Stava ferma a guardare fissa il vuoto, non riuscivo a capire cosa stesse provando, i suoi occhi erano come cristallo, soltanto una luce li penetrava rendendoli inermi al mio sguardo. Fu in quel preciso istante che percepii la sua sostanza, per la prima volta la vedevo..

G. Meli - da Storia d'Ombra-

lunedì 13 ottobre 2008

Diamogli spazio..

Le città e gli occhi. 2.


"È l'umore di chi la guarda che dà alla città di Zemrude la sua forma. Se ci passi fischiettando, a naso librato dietro al fischio, la conoscerai di sotto in su: davanzali, tende che sventolano, zampilli. Se ci cammini col mento sul petto, con le unghie ficcate nelle palme, i tuoi sguardi s'impiglieranno raso terra, nei rigagnoli, i tombini, le resche di pesce, la cartaccia. Non puoi dire che un aspetto della città sia piú vero dell'altro, però della Zemrude d'in su senti parlare sopratutto da chi se la ricorda affondando nella Zemrude d'in giù, percorrendo tutti i giorni gli stessi tratti di strada e ritrovando al mattino il malumore del giorno prima incrostato a piè dei muri. Per tutti presto o tardi viene il giorno in cui abbassiamo lo sguardo lungo i tubi delle grondaie e non riusciamo piú a staccarlo dal selciato. Il caso inverso non è escluso, ma è piú raro: perciò continuiamo a girare per le vie di Zemrude con gli occhi che ormai scavano sotto alle cantine, alle fondamenta, ai pozzi" (ed. OscarMondadori, 2006, 66).




da: Le Città Invisibili di Italo Calvino

martedì 7 ottobre 2008

Sulle vie dei tesori

Sabato 4 ottobre 2008, ore 10.00
Qui, all’ex deposito locomotive di S. Erasmo, la gente attende la guida. Una passeggiata lungo le sponde del fiume Oreto, ma la pioggia imperversa, la gente va via, la visita sarà spostata a sabato prossimo “stessa ora, stesso posto, vi aspetto, mi dispiace ma il mal tempo renderebbe questa una tortura, e noi non lo vogliamo..”
Ore 11.00 un raggio di sole tra le nubi si fa avanti timido e insicuro, decido di iniziare il percorso. Parto dalla foce, lì a S. Erasmo, un pescatore alla riva intento a quello che è il suo sport da sempre, uno spettacolo per gli occhi, il porticciolo di S. Erasmo, la Cala, monte Pellegrino, lì sul fondo, signore incontrastato. L’acqua è limpida, mi ci specchio dentro, ho fatto bene a non andar via, proseguirò il tragitto sul lungofiume, al diavolo il tram, oggi si va a piedi!
Il lungofiume inizia presto a ripopolarsi, per un attimo è forte la tentazione di sedersi ad un bar per ordinare una cioccolata, demordo, la voglia di proseguire il tragitto è tanta, voglio andare in fondo, fin dove lo sguardo mi consente di andare. Sotto il ponte delle “teste mozze”, mai nome fu tanto indicato per ricordare la piccola piramide triangolare in muratura dove venivano appese, a monito dei passanti, le teste dei condannati a morte, un uomo suona la sua fisarmonica attorniato dai passanti. Il prato è ancora pregno della forte pioggia della notte, ma i bambini giocano felici, incuranti dell’umidità; saranno all’incirca le 12.00 affretto il passo, spero di trovare la chiesa della Madonna delle Grazie aperta, è li che vorrei andare..alla Guadagna, pare che sia una chiesa del XVIII secolo, almeno queste sono le poche informazioni che ricordo, barocco romano, due campanili all’esterno, stucchi ornamentali all’interno, non l’ho mai vista, spero di arrivare in tempo.
Già.. in tempo..

Gisella Meli

domenica 28 settembre 2008

un giorno, per caso, un click..



".. SE LE TOCCHI CADONO PER TERRA, FRA TRE QUATTRO GIORNI SI FINISCONO DI CONSUMARE, POI SI BUTTANO A TERRA E STANNO SEI SETTE GIORNI A LAMENTARSI.. COME L'umanità si deve finire di consumare.. "


un click..


http://www.youtube.com/watch?v=QzJUcXU8DJw&feature=related

venerdì 26 settembre 2008

LE VIE DEI TESORI




Visite e incontri nei luoghi dell’Università

Quattro weekend per vivere arte, scienza, natura

Palermo, 26 settembre - 19 ottobre 2008

Ingresso gratuito





sabato 20 settembre 2008

STRADE

Che strana giornata oggi; ieri si programmava di fare un giro per i mercati storici di Palermo, oggi il cielo è nero, forse pioverà, eppure la voglia rimane.. e allora perché non andare, perché non provare?
Ore 10.00 Il Capo, Palermo.
Inizia il viaggio, inizia la pioggia, una pioggia battente che bagna le strade, i tendoni, eppure la gente non sembra fermarsi, lì al Capo, si accelera il passo, si aprono gli ombrelli, qualche turista si ripara in una chiesa.. lì, al Capo. Il gruppo di partenza non si è mai formato, causa maltempo, siamo solo in tre, con la speranza che presto finirà la pioggia e tornerà il sole, ma la speranza è presto vana, e bagnati ormai, continuiamo il percorso per i vicoli della nostra città. Un uomo avanti con gli anni ci indica una chiesa, “andate, ne vale la pena”, penserà che siamo dei turisti, noi, che con la nostra macchina fotografica gironzoliamo, guardandoci intorno con aria spaesata, con l’aria di chi giunge in questi posti per la prima volta.. eppure siamo di Palermo, questa è la nostra città.
Una signora dall’aria trasandata, la nostra Palermo, quanta storia tra i suoi vicoli, quanta gente per le sue strade, qualcuno abbannia ancora al Capo, la città è viva, il fuoco brucia
ancora, sepolto dalla cenere.
La pioggia ci impedisce di proseguire, le strade lì al capo si riempiono di specchi d’acqua, i pantaloni sono ormai zuppi, e allora si cambia strada, si modificano i percorsi; stradine si diramano per il centro storico, luoghi nei quali generalmente non sostiamo, sono quei vicoli stretti, bui, l’altra faccia di Palermo..
“dove andiamo?”
“prendiamo da lì!”
“lì? e dove si arriva ?”
“ah.. non lo so mica, il bello è proprio questo”
Già, il bello è proprio questo, imparare a perdersi.. forse Benjamin intendeva proprio questo, chissà. Generalmente orientarsi è la cosa a cui si tende, ricondurre tutto a schemi prefissati, a griglie precostituite, e se invece provassimo a perderla questa rotta?
Ha finito di piovere, ormai siam distanti dal Capo, ma ci ritorneremo, stavolta per attraversarlo TUTTO, in barba alla pioggia! Ancora una volta!

Gisella Meli

sabato 13 settembre 2008

BOLLE DI SAPONE


Ode alla vita di Pablo Neruda

Lentamente muore chi diventa schiavo dell’abitudine,
ripetendo ogni giorno gli stessi percorsi, chi non cambia la marca,
chi non rischia e cambia colore dei vestiti,
chi non parla a chi non conosce.

Lentamente muore chi fa della televisione il suo guru.
Muore lentamente chi evita una passione,
chi preferisce il nero su bianco e i puntini sulle “i”
piuttosto che un insieme di emozioni,
proprio quelle che fanno brillare gli occhi,
quelle che fanno di uno sbadiglio un sorriso,
quelle che fanno battere il cuore davanti all’errore e ai sentimenti.

Lentamente muore chi non capovolge il tavolo,
chi è infelice sul lavoro, chi non rischia la certezza per l’incertezza,
per inseguire un sogno, chi non si permette almeno una volta nella
vita di fuggire ai consigli sensati.

Lentamente muore chi non viaggia, chi non legge ,
chi non ascolta musica, chi non trova grazia in se stesso.
Muore lentamente chi distrugge l’amor proprio, chi non si lascia
Aiutare. Muore lentamente chi passa i giorni a lamentarsi
della propria sfortuna o della pioggia incessante.

Lentamente muore chi abbandona un progetto prima di iniziarlo,
chi non fa domande sugli argomenti che non conosce,
chi non risponde quando gli chiedono qualcosa che conosce.

Evitiamo la morte a piccole dosi, ricordando sempre che essere vivo
richiede uno sforzo di gran lunga maggiore del semplice fatto di
respirare. Soltanto l’ardente pazienza porterà al raggiungimento
di una splendida felicità.



Tanto tempo fa lessi questa poesia su di un giornale, chissà perché ne strappai la pagina. Da quel giorno la porto sempre con me, forse a ricordarmi di non morire, forse a sbandierami il fatto di esserlo ormai da tempo.. ma chi può dirsi vivo oggi? Nell’era del già detto o fatto, mi chiedo se ci sia ancora spazio per il delirio.
Io sono morta da tempo.

martedì 9 settembre 2008

OLTRE

Foto quartiere Brancaccio, Palermo
Oltre questa cortina di ferro, oltre gli schemi, le rappresentazioni, oltre questa barriera che separa il questo dall’altro. Sapere andare oltre, sguardi diversi per rendere la contemporaneità, al diavolo gli equilibri, le categorie, le etichette; scoprire l’altro, osservarlo, provare a raccontarlo con occhi che sono i tuoi, con modalità che ti son proprie, tu e l’altro.. tu e lui solamente, per un incontro in cui non c’è più spazio per i “se” e i “non-detto”.
Sguardi multipli per una realtà che diventa la tua, cadono gli schemi, cadono le categorie, cade la realtà oggettiva: decostruire per ri-creare, de-scrivere per re-inventare.. fosse così semplice.

domenica 7 settembre 2008

Deliri di una studentessa: NON-LUOGHI

Mesi fa partecipai ad una conferenza di Marc Augé, etnologo e antropologo francese, directeur d’études all’Ecole des Hautes Etudes di Parigi. Partiamo dal presupposto che non ho mai letto nulla di quest’uomo, mai visto né conosciuto prima d’allora.. e allora, perché andare ad una sua conferenza, vi starete chiedendo?
La risposta è una sola: curiosità! e una buona dose di sadismo, ovviamente!
Mi incuriosiva questa concetto: NON-LUOGO. Come può un luogo non essere considerato tale? Nella mia mente cominciarono a farsi strada delle domande, prima fra tutte: il luogo a cosa deve la sua esistenza?
Prime ipotetiche risposte: un luogo è tale in base alla suo essere nello spazio e nel tempo.
Altra domanda: cos’ è che Augé definisce non –luoghi?

La prima cosa che mi colpì di quest’uomo fu il suo essere solo in mezzo alla gente. Stava lì, l’aula era gremita, docenti della facoltà di Architettura, dottorandi in pianificazione urbanistica, studenti. Osservava come se guardasse dal di fuori, come se ciò che lo circondava non lo toccasse..
Prendo posto, generalmente nelle retrofile, sono quelle che preferisco; dopo una breve presentazione Augé inizia il suo discorso. Che sia un antropologo è presto detto; ha la tendenza a partire dal particolare e ricondurre tutto a concetti ben più grandi. Inizia a parlare di città, del rapporto centro/periferia e qui, nel bel mezzo della trattazione, comincia a farsi strada quel concetto di non-luogo. Pare che lui definisca tali quei luoghi non identitari e privi di relazione, fin qui nulla di strano, almeno fino a quando questo concetto viene ripetutamente accostato a quello di periferia.
Per quanto le rappresentazioni che ho di questi luoghi siano legate a cliché nostalgici, non riuscivo a capire come si potessero definire privi di identità.
Nelle sue parole trovava esplicitazione quell’ immagine di periferia come non-città, come spazio dell’alienazione, dell’esclusione, della devianza, luoghi in cui si passa andando e venendo dal centro.. fin quando la mia attenzione ricade su di un unico concetto: “frustrazione”, usato come aggettivo e associato dallo stesso Augé ai giovani che vivono in periferia, definiti “frustrati”per il loro sentirsi esclusi da quella tal cosa che si è soliti chiamare CENTRO. Quanto ci sia di vero nelle sue parole sinceramente non saprei dire, chissà forse anch’io rientro nella categoria.. una cosa allora mi preme, cercarne la definizione nel vocabolario:

agg: frustrato, deluso, reso vano.
in psicanalisi: a) di soggetto che soffre di frustrazioni; b) di impulso, di tendenza impedita nel suo manifestarsi.
Sost: frustrazione, stato d'animo di chi ha la sensazione che tutta la sua opera sia stata o sia vana; in psicanalisi, situazione psicologica che il soggetto avverte come un senso di limitazione e di impedimento alla libera espressione della sua personalità.

- Controllo ancora una volta gli appunti di quel giorno -

“non c’è identità senza alterità, non c’è identità senza relazione”

venerdì 5 settembre 2008

Rappresentazioni

L'io, la città.. una geografia tutta emozionale. Qui, un tentativo di dare un'immagine ad un paese interiore seguendo il moto delle emozioni attraverso paesaggi..

Esco dalla lussuria.
M'incammino
pei lastrici sonori della notte.
Non ho rimorso e turbamento. Sono
solo tranquillo immensamente.
Pure
qualche cosa è cambiato in me, qualcosa
fuori di me.
Ché la città mi pare
sia fatta immensamente vasta e vuota,
una città di pietra che nessuno
abiti, dove la Necessità
sola conduca i carri e suoni l'ore.
A queste vie simmetriche e deserte
a queste case mute sono simile.
Partecipo alla loro indifferenza,
alla loro immobilità.
Mi pare
d'esser sordo ed opaco come loro,
d'esser fatto di pietra come loro.
Ché il mio padre e la mia sorella sono
lontani, come morti da tanti anni,
come sepolti già nella memoria.
Il nome dell'amico è un nome vano.
Tra me e loro s'è interposto il mio
peccato come immobile macigno.
E se sapessi che il mio padre è morto,
al qual pensando mi piangeva il cuore
di essere lontano ora che i giorni
della vita comune son contati,
se mi dicesser che il mio padre è morto,
sento bene che adesso non potrei
piangere.
Son come posto fuori della vita,
una macchina io stesso che obbedisce,
come il carro e la strada necessario.
Ma non riesco a dolermene.
Cammino
pei lastrici sonori nella notte.

Camillo Sbarbaro

domenica 17 agosto 2008

Racconti di vita

Mesi fa trovai questo video sul Web, lo trovo interessante.. gente che racconta il posto in cui vive, un video per raccontarlo agli altri: lo ZEN tra percezione e realtà.

venerdì 8 agosto 2008

Percorsi ..



Livia Alessandrini, Labirinto (2002) ACRYLIQUE SUR TOILE.






Quando ho visto questa immagine, non lo nego, è stato amore a prima vista; è densa di significati, si apre a diverse interpretazioni e quando le letture diventano molteplici.. beh, in quel caso, mi diverto proprio!
Un labirinto tortuoso, difficile da decifrare, la mente umana, le strutture mentali che la comprimono, la contemporaneità... e quell'essere lì, in alto, quasi a controllare, sembra proprio che disegni, che crei dal nulla questo fantomatico labirinto.
Sapersi orientare in esso è la cosa a cui generalmete si tende, chissà perchè poi, perdersi potrebbe essere molto più interessante.. ma come si fa? come poter prendere le distanze dalle nostre rappresentazioni?
Troppe domande, il caldo inizia a farsi sentire e siccome i discorsi seri non sono mai stati il mio forte, preferisco tagliare corto, anche perchè, parliamoci chiaro, non ho la risposta a questa domanda!

sabato 2 agosto 2008

La Parola io

Di Gaber - Luporini2003 © Edizioni Curci Srl -

La parola io
è un'idea che si fa strada a poco a poco
nel bambino suona dolce come un'eco
è una spinta per tentare i primi passi
verso un'intima certezza di se stessi.

La parola io
con il tempo assume
un tono più preciso
qualche volta rischia
di esser fastidioso
ma è anche il segno
di una logica infantile
è un peccato ricorrente ma veniale.

Io, io, io
ancora io.

Ma il vizio dell'adolescente
non si cancella con l'età
e negli adulti stranamente
diventa più allarmante e cresce.

La parola io
è uno strano gridoche nasconde invano
la paura di non essere nessuno
è un bisogno esagerato
e un po' morboso
è l'immagine struggente del Narciso.

Io, io, io
e ancora io.

Io che non sono nato
per restare per sempre
confuso nell'anonimato
io mi faccio avanti
non sopporto l'idea di sentirmi
un numero fra tanti
ogni giorno mi espando
io posso essere il centro del mondo.

Io sono sempre presente
son disposto a qualsiasi bassezza
per sentirmi importante
devo fare presto
esaltato da questa mania
di affermarmi ad ogni costo
mi inflaziono, mi svendo
io voglio essere il centro del mondo.

Io non rispetto nessuno
se mi serve posso anche far finta
di essere buono
devo dominare
sono un essere senza ideali
assetato di potere
sono io che comando
io devo essere il centro del mondo.

Io vanitoso, presuntuoso
esibizionista, borioso, tronfi o
io superbo, megalomane, sbruffone
avido e invadente
disgustoso, arrogante, prepotente
io, soltanto io
ovunque io.

La parola io
questo dolce monosillabo innocente
è fatale che diventi dilagante
nella logica del mondo occidentale
forse è l'ultimo peccato originale.
Io.

http://www.youtube.com/watch?v=aZje4eUvQrs

Sarà pure un peccato, ma in un mondo che ci vuole tutti uguali questa parola ha tutto un altro sapore.

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